Hara-Kiri: Death of a Samurai
Ichimei
Durata
128
Formato
Regista
XVII secolo, periodo Tokugawa. Il ronin Hanshiro (Ebiz Ichikawa) si reca al cospetto del nobile Kageyu (Kji Yakusho) richiedendo che gli sia concesso, nella sua reggia, un luogo dove poter compiere onorevolmente il suicidio rituale. Non molto tempo prima il giovane ronin Motome Chijiiwa (Eita) era giunto da Kageyu con la stessa richiesta ma gli esiti erano stati tragici.
Due motivi si possono rintracciare dietro l'audace scelta di Takashi Miike di rifare il celebre lungometraggio di Masaki Kobayashi. Il primo risiede senz'altro nella modernità del soggetto che, controcorrente rispetto alle convenzioni del genere, aveva denunciato nel 1962 l'ipocrisia e l'indifferenza della classe politica e fatto letteralmente a pezzi la figura del samurai: una visione smitizzante e pessimistica che Miike riprende con massima fedeltà. Il secondo, di carattere formale, sta nelle potenzialità offerte dall'applicazione del mezzo stereoscopico (è questa la prima esperienza del regista con il 3D, tappa obbligata per un cinema come il suo in continua sperimentazione) all'estetica geometrica e rigorosa della pellicola originale. E allora lì dove Kobayashi allestiva una razionale intelaiatura di linee verticali e orizzontali per rimarcare la distanza (morale e spaziale) fra il protagonista e gli altri personaggi, Miike sfrutta la sconfinata profondità di campo della ripresa stereoscopica per raggiungere un effetto simile e non meno incisivo. Come per il precedente 13 Assassini, è in questo efficace dialogo fra tradizione e modernità (lì sul piano contenutistico, qui su quello prettamente tecnico) che l'operazione condotta da Miike trova giustificazione e fondamento. Musiche di Ryuichi Sakamoto.
Due motivi si possono rintracciare dietro l'audace scelta di Takashi Miike di rifare il celebre lungometraggio di Masaki Kobayashi. Il primo risiede senz'altro nella modernità del soggetto che, controcorrente rispetto alle convenzioni del genere, aveva denunciato nel 1962 l'ipocrisia e l'indifferenza della classe politica e fatto letteralmente a pezzi la figura del samurai: una visione smitizzante e pessimistica che Miike riprende con massima fedeltà. Il secondo, di carattere formale, sta nelle potenzialità offerte dall'applicazione del mezzo stereoscopico (è questa la prima esperienza del regista con il 3D, tappa obbligata per un cinema come il suo in continua sperimentazione) all'estetica geometrica e rigorosa della pellicola originale. E allora lì dove Kobayashi allestiva una razionale intelaiatura di linee verticali e orizzontali per rimarcare la distanza (morale e spaziale) fra il protagonista e gli altri personaggi, Miike sfrutta la sconfinata profondità di campo della ripresa stereoscopica per raggiungere un effetto simile e non meno incisivo. Come per il precedente 13 Assassini, è in questo efficace dialogo fra tradizione e modernità (lì sul piano contenutistico, qui su quello prettamente tecnico) che l'operazione condotta da Miike trova giustificazione e fondamento. Musiche di Ryuichi Sakamoto.