La magistratura denuncia uno spettacolo teatrale per presunta oscenità. La compagnia teatrale che lo mette in scena, composta da due attori e un'attrice, viene convocata e interrogata da un giudice.

Cinema densissimo che arriva a esasperare il dramma da camera, nonché crudele esercizio d'oppressione dove la violenza è quella istintiva e convulsa dell'istante. Istante che eccede sempre il piano, come se i corpi volessero fuoriuscire dall'inquadratura, sempre protesi verso un fuori-campo che gli viene negato. Ogni verbosità, ogni eccesso del linguaggio, non può che culminare nell'afasia. «Non c'è che la smania di crudeltà» viene detto in quella che, ancora oggi, rimane una delle opere più ermetiche sull'incomunicabilità e sul corto circuito a cui è destinato ogni linguaggio. Ciò che sorprende è la modalità con cui il regista arriva a prosciugare il set, lavorando in sottrazione totale, negando gli esterni, svuotando e minimizzando l'ambiente per concentrarsi unicamente sul suo ennesimo quartetto di attori. Di qui la gestione di uno spazio tutto interiore in cui i corpi oscillano sempre in bilico tra inazione ed epilessia. Pensato per la televisione.
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