1925. Nell'ospedale psichiatrico di Uppsala, l'inventore Carl Akerblom (Börje Ahlstedt) è deciso a realizzare il primo film parlato della storia del cinema: il soggetto sarà una storia d'amore tra Schubert e Mitzi. Riuscirà a trovare i fondi per realizzarlo, ma ci sarà qualche imprevisto.

Alla soglia dei novant'anni, Ingmar Bergman firma una pellicola televisiva in cui è il cinema a essere in primo piano: come nel successivo Il creatore d'immagini (2000), il regista omaggia la settima arte e, in particolare, il periodo del muto. Il cinema, e l'arte in generale, possono offrire un'ultima gioia a chi si avvia ormai verso il tramonto della sua esistenza. Quella di Bergman è anche una riflessione sulla vecchiaia e sulla follia (il protagonista è in manicomio per aver ferito la fidanzata), segnata da continue allucinazioni e turbamenti di ogni sorta: anche per questo motivo, Vanità e affanni è un'opera che rimanda a tanti altri lavori precedenti del grande autore svedese, da Il posto delle fragole (1957) a Persona (1966). Eccessivamente prolisso e dilatato, è un film dai toni malinconici che dimostra ancora il rigore formale del regista. Il titolo è preso da un passaggio del Macbeth di William Shakespeare.
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