L'adolescente Liam (Martin Compston) vuole a tutti i costi fare in modo che sua madre Jean (Michelle Coulter) riesca a uscire di prigione, per vivere insieme a lui una vita serena e felice. Senza un soldo, il ragazzo decide di trovare il denaro in ogni modo possibile.

Scritto da Paul Laverty (che si è aggiudicato il premio per la miglior sceneggiatura al 55esimo Festival di Cannes), Sweet Sixteen è forse il film più identificativo ed emblematico dell'ultima parte della produzione di Loach, quella in cui il sottoproletariato si fa – se possibile – ancora più disincantato e quasi idiosincratico nella rappresentazione di sé. Non a caso gli scugnizzi e brutti ceffi scozzesi, che citano Chaplin e Mike Nichols, raffigurano l'astrazione poetica di un cinema, quello di Loach, cui ormai sta stretta l'etichetta di realismo tout court. Un cinema che, beninteso, ha la priorità (e l'urgenza) di incastonare drammi e “paradrammi” di una classe sociale ricca di sfumature e dolenti rassegnazioni. Nell'animo di Liam, il perfetto protagonista di una vicenda in divenire (eppure a volte glacialmente bloccata, come per ogni adolescenza che si rispetti), ruota la girandola di ogni esistenza complessa, di determinazioni infallibili e di energie propositive. A prescindere dalle destinazioni e dagli epiloghi. Il finale, in riva alle acque, non può che ricordare, nonostante l'assoluta diversità tra i contesti e gli autori, quello de I quattrocento colpi (1959) di François Truffaut.
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