926. Durante la settimana santa della Pasqua, in un imprecisato luogo impervio del centro Italia, scorrono le diverse storie di alcuni personaggi (due boia, una novizia quattordicenne, una concubina reale incinta, un signore feudale alla fine dei giorni) che, piegati dal silenzio di Dio, cercano uno scopo nella propria esistenza affidandosi alla religione.

Un'opera insolita nel panorama cinematografico italiano degli anni Novanta, in cui la ricostruzione storica è intrisa di riferimenti cristologici e pagani, e l'ascetica spiritualità della vicenda si rispecchia nel paesaggio brullo e incontaminato. Gran parte del fascino deriva dall'ambientazione scarna e minimale, che rende bene i tratti misteriosi dell'epoca come in un austero rituale liturgico. Ma il senso di morte e la presenza del Male sono solo abbozzati, in un continuo compromesso tra primitiva devozione e istinti ferini privi di un coerente punto di vista. La solennità della voce narrante e il severo rigore formale, che riduce al minimo i movimenti di macchina, non trova però un adeguato supporto negli attori, i quali, impegnati a recitare in presa diretta, appaiono spesso impacciati (quando non fuori luogo). Un soggetto affascinante nella sua imperscrutabilità, di vaga ascendenza pasoliniana, ma povero di trasporto emotivo e troppo spesso appiattito sul tronfio didascalismo da sceneggiato TV. Suggestive location nei pressi di Speltara, Gualdo Cattaneo, Todi e Perugia. Presentato in concorso al Festival di Cannes.
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